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RAPPORTO GIMBE: SITUAZIONE DRAMMATICA, MA CAMBIARE E’ POSSIBILE!

C’è un’Italia che si cura viaggiando. Treni, voli, traghetti: milioni di chilometri percorsi per trovare un posto letto, un laboratorio efficiente, una sala operatoria che funzioni. In questa geografia del dolore, la Sicilia è tra le regioni più colpite.

I dati del nuovo 8° Rapporto GIMBE sul Servizio Sanitario Nazionale (ottobre 2025) parlano chiaro: la nostra isola continua a perdere pazienti, risorse e fiducia. Ma quei numeri, se letti con attenzione, dicono anche un’altra cosa: non è una condanna definitiva, bensì un sistema che può ancora rinascere, se affronta le sue inefficienze e le sue carenze strutturali.

Nel 2022 la mobilità sanitaria interregionale ha raggiunto 5,037 miliardi di euro, con un incremento del 18,6% rispetto all’anno precedente. Quasi il 70% di questa spesa riguarda i ricoveri ospedalieri, il 15,9% le prestazioni di specialistica ambulatoriale. I flussi, osserva GIMBE, scorrono «prevalentemente da Sud a Nord»: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto raccolgono quasi metà dei crediti e il 94,1% del saldo attivo, mentre il 78,8% dei saldi passivi si concentra in Lazio e nelle cinque Regioni del Mezzogiorno — Abruzzo, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia — tutte con un saldo negativo superiore ai 100 milioni di euro.

Per la Sicilia, la cifra pesa: oltre 300 milioni di euro di debiti sanitari nel 2022, in aumento rispetto all’anno precedente. Una somma che non rappresenta solo bilanci pubblici, ma viaggi di pazienti, notti in albergo, biglietti aerei, e la consapevolezza che altrove le cure arrivano prima e meglio.

Le cause? GIMBE le individua con precisione: la Regione perde 11 punti nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) rispetto al 2022. Non perché spende meno, ma perché spende peggio. «Non esiste una relazione statisticamente significativa tra la spesa pro-capite e i punteggi LEA: i risultati dipendono dall’organizzazione dei servizi e dall’efficienza dei processi interni».

E l’organizzazione, in Sicilia, è la vera emergenza. Con appena 3,53 infermieri ogni 1.000 abitanti — il dato più basso d’Italia — e un rapporto infermieri/medici di 1,82 (contro una media nazionale di 2,54), la qualità dell’assistenza ospedaliera non può che risentirne. A ciò si aggiunge la difficoltà nel reclutare e trattenere specialisti: chirurgia generale al 64% dei posti coperti, medicina d’urgenza al 56%, radioterapia al 35%, patologia clinica al 24%, microbiologia al 20%. 
In altri termini: mancano mani, non risorse.

Eppure, non tutto è fuga. Nel mare dei dati negativi, ci sono isole di eccellenza. 
Alcuni centri pubblici e IRCCS siciliani — specialmente in epatologia, trapianti e riabilitazione — attraggono pazienti anche da altre regioni del Sud, confermando che quando l’organizzazione funziona, la qualità non ha latitudine. È la prova concreta che un modello sanitario “europeo” non è un mito, ma un obiettivo raggiungibile anche qui, con la stessa dedizione e disciplina che altrove ha trasformato i sistemi sanitari regionali in reti integrate e stabili.

Il Rapporto GIMBE lo dice con una chiarezza che dovrebbe diventare programma politico: 
«Non è la quantità di spesa a determinare la qualità dell’assistenza, ma la capacità di organizzare e governare i processi.»


Tradotto: non serve più denaro, servono scelte giuste. Più personale nei reparti, meno sprechi, un sistema informativo trasparente, reti cliniche interconnesse e tempi di attesa realistici. La mobilità sanitaria non è una disgrazia inevitabile, ma la conseguenza diretta di una governance inefficiente. 
E come ogni malattia, si può curare.

La Sicilia ha già dentro di sé tutto ciò che serve per guarire: competenze mediche di alto livello, una rete ospedaliera che, se coordinata, può ridurre le disuguaglianze interne, e un patrimonio umano che continua a credere nel Servizio Sanitario Nazionale nonostante tutto. 
Basta volerlo. Basta accettare che la salute non è un privilegio da inseguire fuori dall’isola, ma un diritto da ricostruire dentro i suoi confini.

Quando un cittadino potrà scegliere di curarsi a Palermo o a Catania non per necessità ma per fiducia, allora sì, la Sicilia avrà davvero raggiunto quel livello europeo di assistenza sanitaria che oggi sembra lontano ma, nei fatti, è già possibile.

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Già professore ordinario di Gastroenterologia dell’Università di Palermo e Direttore dell’UOC di Gastroenterologia del’AOUP “P. Giaccone”

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