Il 7 maggio 2024 il Governo ha approvato con toni trionfalistici il Decreto Legge n. 60, introducendo due nuove misure per il lavoro autonomo: ACN per le regioni del Centro-Nord e Resto al Sud 2.0 (RSUD) per il Mezzogiorno. L’obiettivo? Favorire l’autoimpiego, aiutare giovani disoccupati, inattivi e soggetti in situazioni fragili ad avviare un’attività imprenditoriale o professionale.
Peccato che tra l’annuncio e l’effettiva attuazione sia passato più di un anno: il Decreto Attuativo, atteso già nell’estate 2024, è stato firmato solo a luglio 2025. E la beffa è che non basta nemmeno questo: per completare il quadro manca ancora un altro decreto, stavolta a firma del Direttore Generale del Ministero del Lavoro (art. 32), che dovrà definire date, modulistica, criteri pratici, soglie, controlli, punteggi. Insomma, le istruzioni vere.
Chi sperava di partire con la propria impresa è costretto ad aspettare ancora. Chi stava cercando un’opportunità concreta resta appeso a un iter burocratico che sembra disegnato apposta per scoraggiare, più che per sostenere.
Oltre ai ritardi, il testo del decreto presenta errori e incongruenze grossolane. Un esempio? Le iniziative possono essere presentate da imprese “avviate nel mese precedente” alla domanda (art. 6). Ma che significa? Nei 30 giorni precedenti o nel mese solare? L’ambiguità è tale che a seconda dell’interpretazione potrei risultare dentro o fuori dai requisiti.
Inoltre, il decreto consente la ripresentazione della domanda in caso di bocciatura (art. 10 co. 4, art. 20 co. 4). Ma se la mia impresa è stata fondata più di un mese prima, come posso ripresentarla? Un cortocircuito logico che mette i richiedenti in una situazione paradossale.
Un’altra distorsione riguarda i soggetti non ammissibili: nelle società possono esserci anche persone che non rientrano nei requisiti (art. 6 co. 4), a patto che non detengano il controllo o l’amministrazione. A differenza del vecchio “Resto al Sud”, qui non si vieta neanche il coinvolgimento di parenti. Questo vuol dire che un genitore – magari benestante – potrebbe spingere il figlio disoccupato a fare da prestanome per accedere ai fondi. Il rischio di abusi è evidente.
Le cifre in gioco sono importanti: si arriva fino a 200.000 euro per programmi di investimento (art. 12 e 22), a cui si sommano fino a 50.000 euro in voucher (art. 10 e 20). Ma non c’è nessun criterio proporzionale rispetto alla dimensione del progetto o al numero dei soci. Anche una ditta individuale può prendere l’intero importo. Risultato? Progetti “monosocio” possono drenare fondi pensati per creare occupazione diffusa. In passato, almeno, il Resto al Sud prevedeva tetti per socio, incentivando forme collettive.
Inoltre, le spese per consulenze tecnico-specialistiche – utilissime per i giovani imprenditori – sono finanziabili solo se fornite da Enti del Terzo Settore (ETS) (art. 11, 13, 21, 23). Peccato che gli ETS non possano vendere servizi commerciali, per definizione. E quante realtà del Terzo Settore in Italia hanno reali competenze su digitalizzazione, prototipazione, processi innovativi? È una scelta che sembra più frutto di disattenzione normativa che di una strategia ragionata.
E il 25% che manca? Nessuna risposta. Entrambe le misure coprono tra il 60% e il 75% dell’investimento. Il resto – almeno il 25% – deve essere anticipato dai beneficiari. Ma il decreto non prevede alcuna forma di sostegno, né convenzioni con banche, né garanzie pubbliche, né microcredito. Per un giovane senza accesso al credito, questo equivale a una porta chiusa. Un dettaglio non da poco, passato sotto silenzio.
Ultima perla: fatture “non quietanzate” solo al Sud. Il Resto al Sud 2.0 (art. 28) consente ai beneficiari di presentare fatture anche non quietanzate per accedere ai contributi. È un modo per facilitare chi non ha liquidità immediata. Ma nella misura ACN per il Centro-Nord (art. 18), questo passaggio non è previsto.
È una svista? Probabilmente sì. Ma in un testo così delicato, le sviste costano care. E generano un problema serio di uniformità: due misure gemelle, pensate per lo stesso target, con regole diverse. Non un dettaglio da poco.
Bastava sistemare il “vecchio” Resto al Sud, questa è la conclusione. Sarebbe bastato confermare e aggiornare il precedente Resto al Sud, una misura già funzionante, conosciuta dagli operatori, con regole rodate e una distribuzione dei fondi più equilibrata. Invece si è deciso di stravolgere tutto, frammentare, riscrivere da zero – ma senza approfondire.
Il risultato? Una misura annunciata come “nuova” ma che oggi, dopo più di un anno, non è ancora attiva. E quando lo sarà, dovrà fare i conti con un testo lacunoso, farraginoso e pieno di insidie applicative.
Una riforma che non semplifica, non accelera, non garantisce. E che, anziché avvicinare le opportunità ai giovani in cerca di riscatto, li costringe ad attendere ancora, tra decreti e promesse, mentre il tempo – e la fiducia – si consuma.