Un iceberg grande quanto Manhattan si è staccato dalla Groenlandia mentre, a poche miglia di distanza, Donald Trump e Vladimir Putin muovevano pedine su una scacchiera termonucleare. Per un giorno l’Alaska è stata il centro del mondo, ma il mondo, oggi, assomiglia a una trappola di ghiaccio da cui nessuno sa uscire.
Ad Anchorage, sotto un cielo di ghiaccio e dieci gradi sotto zero, i due leader hanno messo in scena il loro disgelo personale. Putin, fino a ieri il paria della politica internazionale, è atterrato come un monarca in tournée: tappeto rosso, applausi coreografati, limousine presidenziale.
Accoglienza da amico fraterno a colui che ha messo l’Europa sotto assedio. Sopra le teste rombavano i jet militari americani, ma lui indicava il cielo con un sorriso di chi sa già la fine della partita. Alla domanda urlata “Fermerà le stragi in Ucraina?” si è portato la mano all’orecchio, gesto da finto sordo o da prestigiatore politico.
La sostanza è stata rinviata: Trump ha detto che non c’è accordo finché non c’è accordo, Putin ha invocato le “cause profonde” da risolvere, codice per “Ucraina smilitarizzata e fuori dalla NATO”. Zelensky, escluso come un fastidio, volerà lunedì a Washington per chiedere ciò che sa già di non ottenere, mentre ottantacinque droni russi colpivano l’est del Paese. Si parlava di pace, ma la guerra continuava a scrivere il suo bollettino.
Putin lascia l’Alaska con un bottino pesante: legittimazione internazionale senza dare nulla in cambio, nessuna nuova sanzione, un invito a Mosca scandito in inglese e il piacere di sentire Trump dire che Kiev deve inchinarsi perché la Russia è una grande potenza e lei no. Persino il ministro della Difesa russo ha lasciato l’incontro con il morale alle stelle.
L’unico atto “umanitario” è stata una lettera di Melania sui bambini ucraini deportati, un soprammobile retorico senza peso. L’Europa informata con una telefonata di novanta minuti: Meloni, Macron e von der Leyen in ascolto, ma i contenuti veri restano sepolti nel permafrost. La Norvegia minaccia più pressione su Mosca, mentre il Cremlino prepara decreti per sedurre capitali in rotta verso la Siberia.
Lo slogan del vertice era “Inseguire la pace”. Ma in Alaska la pace somiglia a un’aurora boreale: splendida, inafferrabile, visibile solo nell’oscurità. Putin se ne va con un campione di petrolio artico, Trump stringe un cappellino “Make the Arctic Great Again”. E il gelo, questa volta, non è solo meteorologico.
Già professore ordinario di Gastroenterologia dell’Università di Palermo e Direttore dell’UOC di Gastroenterologia del’AOUP “P. Giaccone”