La giustizia penale internazionale rappresenta un anticorpo contro un virus che muta e ritorna, ma il nostro governo non se ne cura e continua la sua politica di annebbiamento.
Mentre il parlamento ungherese ha recentemente deciso di recedere dalla convenzione sulla corte penale internazionale, il governo italiano lo scorso 6 maggio ha finalmente depositato, dopo due rinvii, la memoria difensiva nella procedura d’infrazione per la fuga del carceriere libico Almasri.
Tutti ricordiamo che Alamari fu arrestato lo scorso 19 gennaio a Torino su mandato internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità (stupri, torture, omicidi, trattamenti disumani e degradanti, ecc.) e dopo due giorni rimpatriato in Libia dal governo italiano con volo di Stato.
Secondo il procuratore della corte dell’Aia, il governo italiano avrebbe violato l’obbligo di cooperazione con la corte penale internazionale, imposto dalla legge italiana (n. 237/2012) di ratifica dello statuto di Roma. E lo avrebbe fatto consapevolmente, facendo in modo che Almasri venisse scarcerato e tornasse libero in Libia, peraltro “esponendo vittime e testimoni, nonché le loro famiglie, a un potenziale e grave rischio di danno”, come ha scritto il procuratore.
Sembrerebbe che il governo italiano nella memoria difensiva abbia ripetuto quanto già affermato dal ministro Nordio al parlamento in ordine al suo potere di valutazione del mandato di cattura internazionale, benché nella letteratura specialistica si parli di un ruolo molto limitato, proiettato alla rapida esecuzione del provvedimento della corte.
In una lettera allegata alla memoria difensiva, l’ambasciatore libico Younes scriveva al ministro degli esteri Tajani nei giorni della fuga di Almasri: “Esprimendo la nostra sincera gratitudine, confidiamo nella vostra eccellenza affinché vogliate trasmettere alle autorità competenti e seguirne l’iter, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni”.
Ma quali sarebbero questi “obiettivi comuni” da realizzare al prezzo di atroci sofferenze nei confronti di una umanità inerme?
Il governo non si è preoccupato di chiarirli al parlamento e all’opinione pubblica, né, come avrebbe potuto, si è attenuto alla procedura per l’apposizione del segreto di Stato. Un governo, il nostro, che non mette nulla in chiaro, preferisce la nebbia, cerca di arrampicarsi sugli specchi.

Ignazio Giacona
Professore ordinario di Diritto Penale presso l'Università degli Studi di Palermo