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UNIVERSITA’, ANCORA UNA RIFORMA A COSTO ZERO CHE TAGLIA I GIOVANI RICERCATORI

In queste settimane l’Università italiana vive una stagione di forte dibattito e di contrapposizione con il Governo nazionale ed in particolare con la ministra Bernini.

Da una parte si avvicina il momento della assegnazione del Fondo di Funzionamento ordinario e ci si attende un ristoro delle risorse dopo il pesantissimo taglio di circa mezzo miliardo di euro subito lo scorso anno (su nove miliardi circa complessivi)

Dall’altra stanno venendo al pettine le problematiche create dall’attuazione della nuova figura giuridica del Contratto di ricerca, che, allo stato attuale, rischia di precludere un futuro accademico a diverse migliaia di giovani Dottori di ricerca.

Il Contratto di ricerca è stato introdotto dalla Legge n.79 del 2022, sostituendo, nei fatti, la precedente figura dell’assegno di ricerca. 

La volontà del legislatore, in linea di principio condivisibile, era quella di fare chiarezza, creando un’unica figura intermedia con Contratto di ricerca a termine, quindi un’unica figura di precariato nel lessico comune, tra il Dottorato (terzo livello della Formazione universitaria) e l’inserimento a tempo indeterminato nei ruoli universitari con la posizione di Ricercatore in Tenure Track. 

Il legislatore, in sostanza, cancellava la terra di mezzo dei rapporti di lavoro atipici che erano prevalsi sino ad allora, unificava tutte le possibili posizioni di pre-ruolo esistenti e riprendeva la figura del post-doc, largamente diffusa negli ordinamenti stranieri. 

Solo che il vecchio assegno di ricerca era un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, annuale ed esentasse, con un importo lordo percepente intorno ai 19.500 euro e un costo lordo ente intorno ai 24.000 euro.

Il nuovo Contratto di ricerca è invece un rapporto di lavoro pienamente subordinato, quindi soggetto ad IRPEFbiennale, rinnovabile una sola volta e prorogabile di un ulteriore anno per specifici progetti di ricerca. La retribuzione è agganciata a quella del ricercatore e, pertanto il differenziale del costo per ogni ente tra ciascun nuovo Contratto e il precedente Assegno di ricerca è non inferiore a 15/16.000 euro. Da 24.000 a 40.000 euro, non poco; per di più la differenza andrà soprattutto in tasse, l’incremento in busta paga sarà piuttosto contenuto. 

Nei fatti, un rapporto pienamente subordinato, ma a tempo determinato e senza garanzie di un futuro inserimento nei ruoli. Un rapporto di lavoro sottoposto a tassazione, ma senza certezza di stabilizzazione. 

Un paradosso, non c’è che dire, e anche costoso: prevedere un contratto di ricerca comporta lo stanziamento di 80.000 euro in due anni, proprio per l’obbligatorietà del rapporto biennale.

Anche qui, il principio del legislatore era giusto. I giovani contrattisti devono essere pagati di più rispetto a quanto oggi accade agli assegnisti, anche per restituire competitività alla scelta della ricerca universitaria rispetto ad altre carriere. È anche giusto che nel momento in cui pagano l’IRPEF godano del welfare che lo Stato garantisce. Ma…chi paga?

Negli ultimi vent’anni il sistema universitario italiano ha annualmente bandito oltre 15mila assegni di ricerca. Volendo mantenere questo numero, la trasformazione in contratti richiederebbe non meno di 240 milioni di euro aggiuntivi.

Non solo: la grande disponibilità di risorse a valere sul PNRR ha fatto esplodere il numero di borse di Dottorato di ricerca che vanno a completarsi nel 2026. Avremo una nuova generazione di Dottori di ricerca con la legittima aspirazione di coltivare il loro sogno e di continuare a contribuire alla Ricerca nazionale ed internazionale. 

Come potranno rispondere le Università? Anche il ricorso al finanziamento su progetti competitivi a valere su fondi europei è molto difficile visto il costo del contratto. 

Certamente sarebbe necessario un fondo di cofinanziamento nazionale, che sostenga Dipartimenti ed Atenei con risorse integrative, in grado di coprire il differenziale di costo tra vecchie e nuove figure, tenendo tra l’altro conto che questo differenziale è soprattutto costituito dall’IRPEF a carico dei Contratti di ricerca

L’alternativa è perdere una generazione di giovani ricercatori, che dovrebbero rinunciare alle loro aspirazioni, o magari andare ad ingrossare le fila della emigrazione intellettuale. 

Una cosa è certa: le riforme a costo zero non possono esistere. Le migliori intenzioni, se non sono adeguatamente supportate economicamente, non reggono. Altrimenti il rimedio è peggiore del male.   

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Ingegnere, professore universitario, già rettore dell'Università di Palermo, nonno. E' stato candidato alla carica di governatore della Regione siciliana nel 2017 con la coalizione di centrosinistra.

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