I terribili fatti di Monreale lasciano in me un sentimento di profondo e contrastato travaglio. Da un lato la rabbia per le morti di ragazzi perbene, colpevoli soltanto di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, quello che potrebbe capitare a chiunque di noi.
Dall’altro lato lo sconforto per i “ragazzini” con la pistola, educati a niente, cresciuti nei quartieri della periferia di Palermo probabilmente senza aver mai incrociato le “istituzioni” nelle varie forme di rappresentanza, familiare, scolastica, associazionistica, parrocchiale, sindacale, statale.
Quelli che nemmeno sanno che il governo ha aumentato gli anni di carcere per l’abbandono scolastico e se anche lo sapessero se ne fregherebbero altamente. Quelli che non hanno mai incrociato, nemmeno per sbaglio, i pochissimi e infaticabili assistenti sociali.
Dall’altro lato ancora la rabbia per me che ho abitato allo Zen, in via Marco Fanno numero 6, quartiere di provenienza dell’unico killer finora fermato dalle forze dell’ordine. Io che ho dormito lì, fatto la spesa lì, frequentato parrocchie, scuole, associazioni, la caserma dei carabinieri, conosciuto gli abitanti del quartiere.
Insomma la rabbia di chi vede associare al nome del killer il quartiere di provenienza. Non capita per tutti i quartieri della città di Palermo vedere sottolineata da parte dei giornalisti la residenza, come un marchio infame, che vale per tutti, come se in quel quartiere non esistessero “i buoni” e la delinquenza prescindesse dal comportamento individuale e fosse un fatto collettivo.
È indubbio che quelle terre di nessuno siano la cantera della criminalità organizzata, dove nascono e crescono i killer di domani, dove si nascondono le armi, dove si organizza lo spaccio, dove si organizza il pizzo delle case popolari, dell’acqua, della luce, dei beni essenziali e dove crescono gli esattori del pizzo. Non v’è dubbio che il tasso di delinquenza in quartieri come lo Zen sia più alto che in tanti altri quartieri della città, negarlo sarebbe stupido.
Ma non v’è dubbio altresì, che chi cresce in quel quartiere e grazie alla rete sociale messa in piedi negli anni, spesso nonostante le istituzioni, riesce a venir fuori, a studiare, a trovare un lavoro, a mettere su famiglia. Magari avendo vissuto senza una mamma e un papà o ancora peggio con dei genitori che ti educavano al male, magari avendo passato più anni in carcere che con i propri figli, merita grandissimo rispetto.
Hanno faticato molto più degli altri, sono andati a scuola in un luogo in cui l’educazione suscita dileggio, hanno lavorato, faticato per pochi spiccioli al giorno mentre i loro vecchi compagni di scuola si sono arricchiti facilmente con i furti e lo spaccio. Non hanno mai viaggiato, al massimo sono andati nei quartieri del centro di Palermo e lo hanno considerato come andare in città col privilegio di non dover esibire il passaporto.
Perché loro sono periferia, periferia del mondo.
E allora ok, tanti delinquenti vengono da lì, ma chiediamoci perché. Basta fare un giro allo Zen e per chi non ci ha mai messo piede nemmeno una volta, ma ha scritto tanto, sarebbe veramente istruttivo, per capire le ragioni.
San Filippo Neri si chiama da un po’ di anni, il nome di un santo è stato dato al quartiere da chi ha pensato che bastasse cambiare nome per cambiare tutto. Ma dietro il nome nulla. E allora ok, tanti delinquenti vengono da lì, ma si mostri comprensione, rispetto, per chi ce l’ha fatta ad uscire indenne da lì e ha compreso più di tanti altri cosa sono l’abbandono, le sofferenze, la povertà.
Persone che non meritano alcun marchio ma tanta, tanta ammirazione.
Presidente Fondazione Italiana Autismo (FIA). Presidente del gruppo Italia Viva - Il Centro - Renew Europe alla Camera dei Deputati.